La maschera mortuaria della concezione

Un necrofilo, professore ordinario di logica all’università di Pisa, si dibatte tra i due corni del dilemma: se la necrofilia ammetta o non ammetta amor proprio. Posto che il necrofilo può amare solo ciò che è morto, se il necrofilo nutre amor per sé non può che esser morto; ma allora, in quanto morto, non può nutrire amore. Se non nutre affatto amore per sé, allora è come morto, e dunque non può non amarsi; ma questo amore implica, come sappiamo, che egli sia già morto, e perciò impotente ad amare alcunché. Se egli poi vorrà sostenere, sedotto da quella sofistica inclinazione all’autoinganno che ai necrofili non fa difetto, di amarsi solo moderatamente – o in misura variabile rispetto ad un presunto amore assoluto –, dovrà per ciò stesso risolvere il paradosso irrisolvibile di essere già moderatamente – o in misura variabile e non assolutamente – morto. La conclusione alla quale il professore necrofilo arriverà è che il necrofilo non può esistere se non nel momento della sua morte, che è anche il momento della sua massima consapevolezza. Il fatto che il professore necrofilo in quel momento non sarà morto lede l’attuale oggettività della sua conclusione nella stessa misura in cui essa fu confermata, a suo tempo, soggettivamente, dalla nostra morte istantanea.



    





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